Il report della dott.ssa Piffero

Pubblicato da Dott. Plotter il

24/04/2016-30/04/2016

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

(Le città invisibili, I. Calvino)

Di ritorno dal viaggio della mia prima missione, la mia prima sensazione è stato un senso di profonda gratitudine per tutto ciò che ho ricevuto dalle persone magnifiche che ho incontrato, prima fra tutte Irina, la nostra meravigliosa interprete, che non si è mai limitata semplicemente a tradurre ma ha filtrato tutto col cuore. Sempre a proposito di ringraziamenti, non posso non citare la piccola Snejana: per me era la prima missione, ed avevo moltissima paura di non essere all’altezza; appena entrate per la prima volta in istituto, col cuore in gola, questa creaturina splendida è volata verso di noi attraverso i corridoi per prenderci per mano, come se ci stesse aspettando da sempre, facendomi mettere da parte il mio piccolo io. “Snejana” significa “donna di neve”, e la sensazione è stata precisamente quella di una nevicata la mattina di Natale.

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Ma partiamo dall’inizio: l’obiettivo della nostra missione era di concentrarci sull’istituto di Babici, fuori da Gomel, che ospita bambini affetti da disabilità di vario tipo. Ci siamo concentrate su un solo istituto perchè questo ci ha permesso di stabilire un forte legame e di trasmettere meglio il messaggio che gli volevamo portare. Più che le scorte di detersivo o le matite colorate, quello che ci premeva di più regalargli erano amore e affetto, e soprattutto lo stimolo a non relegarli solo ai pochi giorni in compagnia dei nasi rossi. Il nostro gruppo, formato da noi tre cloune, Irina e Saverio Tommasi, è stato accolto con calore dal “direktor”, Gregorj Gregorovich Popovich, che abbiamo incontrato spesso anche nei giorni a venire, e che ci ha lasciato una buonissima impressione per quanto riguarda il suo rapporto con i bimbi e la gestione dell’istituto. Sono i piccoli dettagli che colpiscono: i corridoi dipinti a triangoli di colori diversi, così si risparmia sulla vernice, e l’effetto è più allegro, ci spiega orgogliosamente il direttore. I vestiti di seconda mano dei bambini. La loro immensa gratitudine per ogni piccola cosa, anche un palloncino da gonfiare. Ci siamo presentate portando un piccolo spettacolo nel teatro dell’istituto, al termine del quale abbiamo iniziato a lavorare a piccoli gruppi,nelle stanzine “salottino” o nelle aule. La nostra giornata prevedeva di non sconvolgere i loro orari di lezione e le loro ore dedicate allo svolgimento dei compiti. Come ho già raccontato, per me la vera accoglienza è stata quella di Snejana, e subito dopo degli altri bambini del  primo gruppetto al quale ci siamo dedicate, con palloncini, giochi e colori e tanta confusione. Era incredibile vedere quanto questi bambini fossero affamati di affetto, carezze e sorrisi, tanto che non ho potuto fare a meno di chiedermi se ne ricevessero abitualmente. Proprio per questo ci siamo prefissate, come obiettivo principale, quello di insegnargli a sostenersi e coccolarsi a vicenda, affinchè quello spirito non rimanesse circoscritto ai nostri pochi giorni di permanenza lì, ma mettesse radici profonde in modo da diventare parte della loro quotidianità. Il secondo giorno ci siamo recati a Gomel, in città, per i vari acquisti (i computer per i bambini sordi, i dentifrici e i detersivi per l’Istituto di Babici). Ironia della sorte, era proprio il trentesimo anniversario della tragedia di Černobyl’,e per quanto non ci fossimo imbattute in commemorazioni ufficiali, il clima triste e piovoso di quel giorno si accordava bene con la ricorrenza. La giornata è iniziata con un caffè al bar mobile “Cup of Peace” con Victoria e Nataša, due grandi donne conosciute dal nostro gruppo clown durante la missione dello scorso anno, che volevano salutare Red. Ci hanno accompagnati poi in un negozio di artigianato dove abbiamo avuto occasione di ammirare la creatività e la bravura di tanti piccoli artigiani del posto. Abbiamo preso, come ormai ho capito essere nella tradizione bielorussa, un tè tutti insieme, avvolti dal consueto calore e ospitalità che ho capito essere di casa in Bielorussia. Quando siamo state a consegnare uno dei computer ad Olga, siamo state anche a conoscere i bambini della classe nella quale si trovava ad insegnare. Era una classe speciale, come ci ha spiegato poi Olga, per bambini problematici. Abbiamo interagito con i soliti giochi, marionette e palloncini, e mi è dispiaciuto molto avere così poco tempo per stare con loro. Questo mi ha fatto capire meglio la decisione di concentrarci maggiormente su un solo istituto, perchè in effetti permette di andare più a fondo nel relazionarsi con i bambini e creare un legame più saldo, per quanto io speri di essere arrivata anche a loro, in un solo pomeriggio, e che magari si ricordino dei nostri nasi rossi e di come un sorriso e una carezza possano cambiare la giornata. Siamo poi state a consegnare i rimanenti computer a Lyuba, donna straordinaria che si impegna da anni a seguire i bambini che vengono in Italia nelle vesti di traduttrice.   Nel tardo pomeriggio  siamo stati ospiti presso l’associazione diabetici a cui abbiamo inviato le scorte di macchinette, striscette e insulina, dove  abbiamo letto ad alta voce la lettera di Nuvola di incoraggiamento per le donne, con la preghiera di accogliere nel cuore questo incoraggiamento e diffonderlo il più possibile.  Era toccante vedere come, man mano che Irina traduceva le parole di Nuvola, i volti di quelle donne si commuovessero, riconoscendo il proprio valore e la propria forza. Infine, Saverio ha intervistato la presidentessa dell’associazione,  Раиса Гриневецкая. Durante l’intervista mi sono commossa, anche in quanto semplice spettatrice, quando alla domanda:”cosa è cambiato nella vostra vita dopo Černobyl’?” queste donne si sono guardate, tutte, in un momento di silenzio prima di rispondere, facendomi capire che tutto, troppo è cambiato da quel 26 aprile di trent’anni fa, tanto da non poter trovare parole adatte, da chiedersi se esistano parole adatte.

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Il terzo giorno siamo tornati a Babici, dove abbiamo nuovamente lavorato in piccoli gruppi nelle classi, dedicandoci ai colori e agli animali, leggendo fiabe e pastrocchiando con colori e formine. Consegnando uno dei nostri regalini per loro (dei pacchetti di matitine colorate) ho avuto ancora una volta occasione di essere annaffiata da una doccia di meraviglia e gratitudine inaspettata… sentirsi rispondere, nel sapere che il pacchettino conteneva ben quattro matite , con occhi sgranati e felici: “taaaaaante!”mi ha toccata tantissimo. Incredibilmente, mentre a me sembrava di fare così poco rispetto all’enormità dei loro bisogni, venivo investita da una gratitudine immensa. Mi sono sentita piccola piccola con le mie lamentele sui problemi della quotidianità in Italia, circondata da questi bambini a cui un pacchettino di matite colorate illumina la giornata. Per la prima volta, poi, ci siamo approcciate anche ai ragazzini più grandi, con i quali era un po’ più difficile abbattere le barriere, ma allo stesso tempo a cui era fondamentale che arrivasse il nostro messaggio, in modo che imparassero a sostenersi a vicenda e ad essere un punto di riferimento per i più piccoli. Per quanto, inizialmente, fossero più chiusi e imbarazzati dei bambini, piano piano si sono sgretolate tutte le barriere e ho avuto modo di rendermi conto di quanto anche loro, a prescindere dall’età, avessero bisogno di aprirsi ed essere accolti. Quel giorno sono arrivate le scorte di detersivo e dentifrici, scaricate dal camion tra lo stupore e l’allegria generale: ormai i nostri scambi col direttore iniziavano ad essere monotoni, perchè continuavano a fioccare ringraziamenti da entrambe le parti! Infatti, non posso negare che chi si è arricchito di più  in quei giorni a Babici, siamo state proprio noi, che abbiamo vissuto un’esperienza talmente preziosa da essere ineguagliabile.  Una delle storie che mi ha colpita di più è stata quella del “ragazzo delle pile”: un ragazzo alto alto con un grave ritardo mentale che non abbandona mai le sue pile, forse in qualche modo pensava di trarne energia. Quando Saverio gli ha regalato una pila di Tiger, completamente nuova per lui, l’ho visto traboccare di felicità. L’ultimo giorno denso di saluti veloci mi ha mandato un bacio con la punta delle dita con una delicatezza commovente e le sue pile ben salde nella mano. Fa immensamente male pensare a quale potrà essere il suo futuro, in un altro istituto sicuramente peggiore di questo, dove sarà condannato a trascorrere il resto della propria vita una volta diventato maggiorenne. Un altro meraviglioso regalo che ho ricevuto è stato un mozzicone di matita da parte della piccola Anja: la cosa più preziosa che aveva da offrirmi, la matita con cui aveva disegnato fino ad allora. Il penultimo giorno abbiamo assistito allo spettacolo organizzato per noi, durante il quale le manine dei bimbi seduti attorno a noi non hanno smesso un attimo di cercare i miei codini, tenermi una mano, cercare un contatto o un sorriso. Persino Alina, una bambina affetta da sindrome di down che il primo giorno era stata timidissima e ritrosa, prima di aprirsi nel gioco coi nastri con Pluffa, quel giorno in teatro era piena di sorrisi e abbracci per tutti: l’anno scorso a stento si lasciava avvicinare! Ma torniamo a mercoledì: avevamo dedicato quella giornata al laboratorio dei colori e degli animali. Siamo partite nella prima classe quindi con delle favole di Esopo tradotte passo passo dalla nostra Irina, armate poi di stencil, spugnette e barattoli di colore che alla fine gli abbiamo regalato. Man mano che pastrocchiavano con gli stencil o inzuppavano le mani nel colore per creare delle farfalle con le impronte, i bambini si scioglievano sempre di più, e accorrevano felicissimi a mostrarci i loro lavori. Ho notato un bimbo dall’aria timida che stava un po’ in disparte, con un astuccino di Spiderman accanto,e gli ho disegnato una ragnatela. Sembrava non gli importasse molto del mio tentativo di fare amicizia con lui, ma poco dopo mi sento tirare per la manica e mi vedo mostrare la mia ragnatela tutta colorata alla perfezione e illuminata dal meraviglioso sorriso di chi reggeva il foglio.

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Poi siamo passati in una classe di ragazzini più grandi, dove abbiamo giocato con gli stencil e i colori per il viso. Come dicevo prima, i ragazzi grandi erano un po’ più chiusi e timidi, ma dopo il proliferare di richieste di dragoni dipinti sulle braccia (e di gusti simili in campo di supereroi dei fumetti) il ghiaccio si è rotto facilmente, e le due dolcissime ragazze del primo banco ci hanno regalato dei loro disegni. In questa classe abbiamo anche ammirato il piccolo museo allestito dai ragazzi, dedicato ad oggetti tipici della tradizione bielorussa: culle, telai, strumenti musicali e abiti tipici che facevano parte della quotidianità dei loro antenati, ricreati e custoditi con cura nella stanza accanto alla loro classe.

Dopo il consueto pranzo offertoci dal direttore, nel pomeriggio siamo state in uno dei “salottini” che collegano le camerette dei dormitori dei bambini, dove abbiamo conosciuto un altro gruppetto di piccoli e Saverio ha messo un pò da parte la telecamera per prendere le redini dell’animazione. Mi ha colpita tanto una bimba in particolare, che non si staccava più da me, e continuava a ripetermi con aria meravigliata la stessa cosa, indicando il mio naso a cuore che la Irina mi ha spiegato significare “sei bellissima”. L’ultimo giorno è stata lei, infatti, a regalarmi la sua matitina. L’ultimo giorno, giovedì, sapevamo che c’era uno spettacolo in nostro onore e ci sentivamo immensamente grate per il calore di quell’accoglienza. Quel giorno siamo state  aiutate nella traduzione da una delle “grandi”, Vera, una ragazza di quattordici anni che, da quando ne aveva sette, viene ogni estate in Italia dalla sua famiglia adottiva a Forlì, e aspetta con ansia di compiere diciott’anni, in modo da poter essere libera di trasferirsi definitivamente da quella che, per lei, è la sua vera famiglia. Mentre aspettavamo che tutto fosse pronto per lo spettacolo, una delle signore dell’istituto, Maria, ci ha mostrato tutti i lavoretti che fanno i bambini, usando per lo più materiale di riciclo, come corteccia, lattine, fagioli, pezzetti di carta etc, Dopo aver ammirato la loro bravura, veniamo chiamate in uno spazio più grande dei soliti lunghi corridoi dove, a sorpresa, una schiera sorridente di bambini, capeggiata da uno di loro, ci mostra i loro balletti ed esercizi ai quali abbiamo miseramente cercato di partecipare anche noi, scatenando risate a destra e sinistra. Adesso era proprio giunto il momento dello spettacolo: abbiamo preso posto nel teatro, mischiandoci tra le file di bambini, in trepidante attesa, pronte a goderci lo spettacolo. E che spettacolo! I costumi erano stati cuciti da loro, non mancavano danze tradizionali che si mischiavano a canzoni moderne, e il direttore in prima fila dirigeva il tutto, visibilmente emozionato quanto loro e preoccupato per la buona riuscita dello spettacolo. Purtroppo non abbiamo avuto modo di fare il nostro discorso di ringraziamento subito, perchè i bambini dovevano seguire gli impegni dettati dal loro orario, ma abbiamo chiesto al direttore la disponibilità del teatro nel pomeriggio. Volevamo, infatti, riuscire a trovarci insieme a tutti i bambini dell’istituto per trasmettergli il nostro messaggio,  quello che più ci premeva, cioè l’importanza vitale di non relegare tutto il calore, gli abbracci, lo scambio alla parentesi clown di questi giorni. Abbiamo quindi fatto ricreazione con loro, e siamo uscite in cortile con un gruppetto con il pallone e i nastri, a giocare tutti insieme. In quell’occasione abbiamo notato come il loro pallone fosse malconcio, sgonfio, bucato e sbrindellato, e così gliene abbiamo preso uno nuovo che abbiamo consegnato il giorno dopo al direttore. Mentre giocavamo in cortile, notavo ancora una volta l’immenso bisogno di affetto di questi bambini: si accontentavano di prendermi le mani e guardarmi sorridendo, beandosi di quel tipo di contatto così poco familiare. Mentre qualcuno mi stringeva le mani ne arrivava un altro ad abbracciarmi, e poi un altro ancora. Notavo che, però, non facevano la stessa cosa tra di loro, ed era proprio questo che invece volevamo ottenere. Nella frenesia del gioco, una delle bimbe rompe il mio nastro rosso, al che vengo sommersa da una schiera di faccine affrante, che si passavano il povero nastro offeso di mano in mano per cercare di accomodarlo, mentre io mi affannavo, commossa, a tranquillizzarli della poca importanza del danno.  Finalmente abbiamo il teatro tutto per noi: mentre vengono radunati i bambini delle varie classi, la mia tensione e l’emozione aumentano: tocca a me infatti tenere il discorso di ringraziamento per i bellissimi giorni che abbiamo passato con loro, e non faccio che chiedermi come potrò riuscire a catalizzare l’attenzione di un’intero teatro gremito di bambini. La soluzione mi viene dal fornitissimo zaino di Red, dal quale pesco un fischietto a forma di becco con cui conquisto l’ordine a passo di papero. Il discorso che mi ero preparata è uscito fuori da solo, man mano che guardavo negli occhi questo o quel bambino, cercando di trasmettere ad ognuno di loro la nostra gratitudine e l’importanza del continuare a sostenersi e diffondere amore ed empatia come abbiamo fatto noi in quei pochi giorni. Per far loro prendere confidenza con queste strambe pratiche che avevano riservato solo a noi, quindi, abbiamo fatto il gioco degli abbracci: dovevano mettersi a coppie e imitare esattamente quello che facevamo noi. Quando hanno visto che dovevano abbracciarsi non sono mancate le faccine imbarazzate alla “urgh,e io dovrei abbracciare proprio lui?!” ma piano piano si sono sciolti e sono venuti nello spiazzo sotto il palco a provare tutti insieme. Però tanti ragazzini più grandi erano rimasti abbarbicati alle loro sedioline di legno, troppo timidi e orgogliosi per lasciarsi andare agli abbracci di gruppo come i più piccoli, quindi ho abbandonato la mia postazione sul palco per andare tra le loro file a blandirli uno per uno. Sorprendentemente (o forse no?) non aspettavano altro, perchè bastava l’invito della mia mano tesa che veniva stretta all’istante, per portarli al centro del gioco insieme agli altri. Spero che insieme al demone della mia timidezza, quel giorno in teatro sia stato sconfitto anche quello della loro, e che il seme del nostro messaggio abbia messo radici profonde. Gli abbiamo anche mostrato, sul palco, i regali che avevamo portato per loro: il lettore dvd, il twister con i piatti, i colori, i rocchetti di filo colorato e luccicante,etc. Quella sera sono tornata stanchissima, e siamo stati a cena con Victoria e la sua bambina, Nataša e suo figlio Hariton, che ci hanno lasciato dei pensierini per noi e per Nuvola, Pan e Pasticca che avevano conosciuto l’anno scorso. Domenica sera, prima del primo incontro con i bambini, li avevo sognati in trepidante attesa: mi capita la stessa cosa giovedì sera, prima dell’ultimo saluto di venerdì mattina, solo che stavolta i bimbi avevano volti e voci conosciute, e mi sono svegliata col cuore stretto. Quel giorno abbiamo dedicato non più di dieci minuti a classe, per cercare di riuscire a salutare tutti, e lasciargli le nostre calamite e il quadretto di Scrap for Smile, e rinnovare la nostra raccomandazione di ricordarsi di noi e sostenersi l’un l’altro in ogni momento. Una delle classi era quella di ginnastica, dove siamo state accolte con un balletto. La splendida donna che si occupa della loro educazione motoria ci ha raccontanto di come Vladi, un bambino dal sorriso splendido che ballava radioso, fosse stato paralizzato fino a cinque anni fa per colpa di una paralisi cerebrale. Era commovente vedere come tutti quei bambini, nonostante le difficoltà enormi legate alle loro condizioni fisiche, ballassero felici sotto l’amorevole guida di questa donna “migliore di un miracolo”. Purtroppo non ce l’abbiamo fatta a finire di visitare tutte le classi, quindi abbiamo lasciato i quadretti da consegnare alle classi mancanti e ci siamo tuffate a portare scompiglio nella loro ricreazione, per un’ultima immersione nei saluti e negli abbracci. Mi ha spezzato il cuore una bambina che ci chiedeva di portarla via con noi, in Italia, di venire ad abitare a casa nostra, ma sono stata abbastanza brava da trattenere le lacrime fino alla fine. Ma, mentre andavamo via, non ho potuto fare a meno di guardare le finestre, dove c’era una moltitudine di visetti pigiati e manine sventolanti, al che abbiamo guadagnato la via verso il cancello coi volti rigati di lacrime. Ed è proprio così che ci ha incrociate il direttore, piangenti e moccicanti verso il cancello, e visto che non c’erano più parole per ringraziarlo di averci permesso di passare questo tempo con i bambini  del suo istituto tutto è culminato in un abbraccio collettivo anche col direttore. Mentre mi allontanavo, sentivo un senso di impotenza schiacciante, la sensazione che avrei voluto fare di più per quei bambini, toglierli da quell’istituto, assicurare a ognuno di loro una famiglia, le migliori cure possibili, un cane, un gatto e un pappagallo, insomma tutto, nonostante loro ci fossero immensamente grati già così. Abbiamo avuto il morale triste per tutto il tempo, e l’imminenza della separazione con Irina non ci rendeva certo migliore l’umore, nonostante il pranzo nel bellissimo parco di Gomel. Un’emozione bellissima è stata la telefonata a Nuvola, a Gaza, nel pensare che proprio M’illumino, in quel momento, stava toccando contemporaneamente due realtà così dure, portando il nostro messaggio in due angoli del mondo lontanissimi. Quello che mi ha rimesso un pò in pace con il senso di impotenza e ingiustizia che mi pervadeva è stato vedere, in aeroporto, che i nostri compagni di viaggio erano un gran numero di bambini pronti a volare in Italia dalle loro famiglie adottive o in colonia per alcuni mesi, esperienza che permette loro di ridurre fino anche del 40% il rischio di contrarre tumori. Il nostro intento è proprio questo, come abbiamo promesso al direttore: riuscire a portare anche i bambini di Babici in Italia, e vedere quel gruppetto di bambini che volava insieme a noi verso una speranza di vita migliore è stato il miglior incoraggiamento che potessimo desiderare per lottare affinchè sempre più bambini possano avere questa possibilità.

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спасибо! (grazie!) Piffero, a Babici ribattezzata Fleita

Categorie: Bielorussia 2016